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Broadband italiano: si cambia in corsa

I piani broadband definiti nel 2021 vanno corretti subito spostando fondi, altrimenti sarà difficile raggiungere gli obiettivi prefissati

Tecnologie

La teoria del broadband italiano era buona, la pratica invece no: è questo il succo delle premesse che hanno portato il Governo italiano a rimodulare la strategia nazionale per lo sviluppo delle reti a banda ultralarga. Strategia definita nel 2015 e poi rivista nel 2021 nell'ambito del PNRR. Ora si prende atto che, come molti temevano, il sistema-Paese non era in grado di risolvere di colpo il problema storico della connettività nazionale. Manca una "macchina" efficiente per lo sviluppo infrastrutturale delle TLC. Serve crearla, ed è questo il principale obiettivo di una nuova strategia che copre il periodo da qui al 2026.

Partiamo da cosa non è andato come ci si aspettava. Innanzitutto il Piano Aree Bianche del 2015, per portare connettività broadband nelle zone a fallimento di mercato. Su circa 9,6 milioni di unità immobiliari da connettere entro fine 2022, siamo fermi a 4,9 (a fine aprile 2023). Poi ci sono i piani nati con il PNRR: qui il nodo è il piano "Italia a 1 Giga", per portare connettività almeno a 1 Gbps ad abitazioni e imprese: 6,8 milioni di civici. Siamo fermi a 100 mila circa. Non che agli operatori privati vada poi così meglio. Infratel indica che insieme essi hanno, da qui al 2026, piani di investimento definiti per raggiungere in banda ultralarga 16,3 milioni di civici: sono fermi a 6,6.

Se piani di sviluppo infrastrutturale simili falliscono nello stesso periodo e con tassi di penetrazione analoghi, vuol dire che ci sono anche cause comuni. La nuova strategia ne indica alcune: c'è troppa burocrazia, manca il personale tecnico qualificato da impiegare nei lavori, mancano anche strumenti adeguati alla progettazione delle nuove infrastrutture e per la cooperazione tra operatori.

La situazione va sbloccata, se vogliamo che i vari piani già definiti siano davvero completati per tempo. Per questo il Governo intende investire in nuovi mezzi e soluzioni per supportare gli enti pubblici nella autorizzazione e nel controllo dei cantieri, come anche per mappare e georeferenziare i civici e le unità immobiliari da connettere (oggi il tasso di errore è superiore al 20%).

Ma ci sono anche investimenti per il rilancio del Sistema Informativo Nazionale Federato delle Infrastrutture - la banca dati del MIMiT per favorire la condivisione delle infrastrutture, tra cui anche quelle di telecomunicazioni - e per realizzare una piattaforma centralizzata che metta in contatto domanda ed offerta dei professionisti del settore TLC. In parte, questo significa istituzionalizzare iniziative che erano già state localmente o parzialmente messe in atto.

Il grosso dello sforzo è dedicato alle infrastrutture vere e proprie, facendo entrare più pesantemente in campo il settore pubblico. In questo senso vengono ad esempio stanziati 400 milioni di euro per un backhauling in fibra ottica di proprietà pubblica lungo le tratte ferroviarie e altri 100 per il backhauling delle reti di accesso locali realizzate con il piano Aree Bianche e con i fondi PNRR. La collaborazione con FS vale anche lato 5G: si stanziano infatti 250 milioni per realizzare un’infrastruttura 5G multi-operatore pubblica lungo le tratte ad Alta Velocità.

Ben 800 milioni di euro serviranno invece per spingere le grandi realtà nazionali (enti pubblici, distretti industriali, aree portuali, poli di alta specializzazione, aree agricole) a sviluppare applicazioni e servizi innovativi verticali basati sul 5G e sulle tecnologie di edge computing.

Non possiamo però "nazionalizzare" tutto il mondo TLC per farlo innovare più in fretta e meglio. Serve una spinta pubblica sì, ma che idealmente (ri)metta in moto il settore in Italia. A questo servirà tra l'altro un nuovo fondo di venture capital da 30 milioni di euro per sostenere startup e PMI innovative nel settore Telco. L'idea prevede anche l’individuazione di almeno due acceleratori/incubatori in grado di offrire servizi diretti di supporto alle startup.

Fondi più cospicui sono destinati alla transizione ecologica del settore Telco e al trasferimento tecnologico. Nel primo ambito nasce un Green Transition Fund da 250 milioni gestito da Cassa Depositi e Prestiti Venture Capital, nel secondo si stanziano 350 milioni per realizzare una rete di 50 Centri di Competenza e Digital Innovation Hub che sviluppino ed eroghino alle imprese servizi tecnologici avanzati e di trasferimento tecnologico in ambito Telco.

In totale, la nuova strategia per l'ultrabroadband nazionale mette in campo qualcosa come 2,8 miliardi di euro, per la precisione 2.821,5 milioni. Quasi tutti (2,4 miliardi) vengono dal PNRR, dal Piano Nazionale Complementare e da altri fondi dei Ministeri coinvolti. Il resto è ancora da reperire, tra le pieghe dei bilanci statali e comunitari. Non dovrebbe essere un problema: "data l’articolazione delle fonti di finanziamento pubblico, complementare agli investimenti dei privati, si può affermare che in Italia non vi sia un gap di investimento", spiega il Comitato Interministeriale per la Transizione Digitale.

Basteranno questi fondi per un rilancio infrastrutturale - l'ennesimo, vien da dire - della banda larga italiana? Difficile dirlo. Il lato positivo della nuova presa di coscienza è aver "ufficializzato" che il problema della connettività italiana è sistemico e va quindi affrontato con iniziative a livello di sistema. Resta però da vedere quanto le nuove idee potranno avere effetti pratici rilevanti in un lasso di tempo che ormai si fa, per forza di cose, sempre più breve. Al 2026 manca poco.

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