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La continuità operativa ai tempi del coronavirus 

L’emergenza mondiale che stiamo vivendo suggerisce molteplici riflessioni sui concetti di ‘rischio di discontinuità’ e di ‘continuità operativa’, a seconda di applicarli ad ambiti che spaziano dall’esperienza domestico-familiare, al mondo del business, dell’amministrazione e della collettività

Trasformazione Digitale
Il ‘rischio di discontinuità’ di un’attività (o di un processo) è per definizione la combinazione della probabilità che l’attività si interrompa con l’effetto prodotto dall’interruzione. In letteratura si trovano molti esempi classici di cause di discontinuità: il black-out, l’evento meteo, l’incendio, il terremoto, il danno strutturale, l’interruzione della catena di fornitura, lo sciopero. La pandemia è sempre stata una minaccia considerata a livello puramente teorico, soprattutto fuori dal mondo anglosassone nel quale invece – ricordando i costi assicurativi patiti in epoca coloniale a causa degli effetti della scarsa igiene e dei frequenti contatti fra popoli diversi – ha goduto sempre di una certa considerazione nelle valutazioni di impatto sul business.
Il rischio di discontinuità dovuto a pandemia è stato quindi spesso sottovalutato nelle ‘Business Impact Analysis’ delle organizzazioni in quanto, il pur elevato impatto si combinava sempre con una bassa probabilità di accadimento (basata su dati storico-statistici), facendo quindi diminuire l’importanza e l’urgenza delle azioni da mettere in campo a contrasto. 

Entra in scena il Coronavirus
All’inizio del 2020, con l’entrata in scena del Coronavirus, il mondo è cambiato forse irreversibilmente, a partire dalla consapevolezza delle persone, siano essi cittadini, lavoratori, imprenditori, governanti.
Tutti indistintamente ci siamo resi conto che per evitare danni maggiori rispetto a quelli subiti semplicemente per non aver diffuso immediatamente l’allarme del contagio, bisognava innanzitutto rimanere a casa (il cosiddetto ‘distanziamento sociale’), per i fortunati che se lo potevano permettere, e mandare al contempo al fronte un esercito eterogeneo, fatto di medici e infermieri in trincea, ma anche di poliziotti, vigili, farmacisti, autisti di mezzi pubblici e commessi di supermercati in seconda linea (paragoni e terminologia bellica adottati nel seguito suonano tragicamente appropriati). Il peggior incubo di un generale: non sapere quanti soldati e quali armi ha il nemico, neppure esattamente dov’è.
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La continuità operativa
E qui veniamo al concetto di ‘continuità operativa’, che nel mondo ISO (International Organization for Standardization) è formalmente definito come 'capacità di un’organizzazione di mantenere la consegna di prodotti e servizi a livelli accettabili predefiniti a seguito di una interruzione'. In altre parole, la continuità operativa corrisponde a un atteggiamento gestionale che valuta il rischio di accadimento di interruzioni produttive dovute alle minacce cui è sottoposta l’organizzazione, e che predispone delle strategie di contenimento e contrasto, mettendo a disposizione con anticipo (cioè in tempo di pace) le risorse (umane e materiali), le informazioni e le procedure.
Nell’ipotesi di pandemia un’organizzazione deve garantire:
  • La ridondanza delle risorse umane, in termini di quantità e di competenze, sia per non abbandonare la trincea (il processo primario), che per non far mancare l’appoggio dalle retrovie (i processi di supporto);
  • L’accesso ad infrastrutture produttive o di servizio alternative;
  • La disponibilità di fornitori alternativi, in caso di ‘default’ dei principali;
  • Un adeguato dimensionamento delle scorte, per gestire i primi momenti di interruzione fino al ristabilimento della supply chain;
  • La definizione di canali e di modalità di comunicazione adeguate all’evento, perché l’informazione è uno strumento vitale per fronteggiare le crisi.
Senza essere esperti di piani di business continuity, abbiamo così sperimentato sulla nostra pelle di cittadini l’esigenza di avere in casa una linea Internet per “restare connessi” e fare smart working, una scorta di legumi, latte e farina, una bottiglia di Amuchina … tutto ciò che etichettavamo come manie di un nonno esageratamente previdente è diventato in alcuni casi il rimpianto di non averci pensato prima.
Anche gli ospedali e le comunità: come hanno rimpianto di non avere scorte di mascherine o di bombole di ossigeno, presto diventate merce rara per l’indisponibilità sul mercato.
E il Governo, e la Protezione Civile: solo la grande capacità italiana di dare il massimo nei momenti più bui ha consentito di radunare in un giorno una task force di 300 medici con 7.900 candidature, in un momento in cui montava la polemica per i troppi medici mandati in trincea con la sola mascherina.
Anche le imprese – e fra esse TÜV Italia – sono dovute correre ai ripari non tanto per mantenere l’operatività, ma anche solo per non affondare. Abbiamo partecipato senza orario al lavoro corale di definizione ed applicazione di regole operative emergenziali che ci hanno permesso di continuare a fare audit e a dare risposte ai clienti.

Quale lezione ci lascerà il Coronavirus sul tema della continuità operativa, ai singoli, alle comunità, alle imprese, ai governi?
Sicuramente la consapevolezza di dover individuare anticipatamente gli scenari di interruzione che possono verificarsi nella nostra organizzazione, valutandone il peso e l’impatto. Di conseguenza, pianificare la risposta per non restare schiacciati dall’evento e riuscire a governare la continuità.
Da ultimo, ma non meno importante, a riconoscere anticipatamente i prodromi dell’evento per attivare, rapidamente, la risposta.
Ma su questo torneremo a ‘guerra’ finita. 
* Coordinatore Tecnico ISO 9001 e ISO 22301 per la Divisione Business Assurance di TÜV Italia
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