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La Pax Romana del cloud e i barbari della repatriation

Il business di molte imprese IT cala e c'è da difenderlo. Anche mettendo in dubbio il valore sinora intoccabile del passaggio al cloud.

L'opinione

L'IT vive una specie di lunga Pax Romana in cui sono tutti d'accordo che il presente e il futuro della digitalizzazione sta nel cloud. Le forme e i modi della "cloudification" delle imprese possono variare, ma il mantra è quello. E in un mercato a crescita continua - perché la parte delle aziende solidamente "cloudificate" è ancora minoritaria - questo mantra garantisce business per tutti: chi fa hardware, chi fa software, chi offre servizi, chi propone consulenza.

La Pax Romana, quella vera, è durata una cinquantina d'anni. Poi i barbari hanno iniziato a premere ai confini dell'Impero e le cose si sa come sono andate. Ora anche l'IT ha i suoi "barbari": quelli che sempre più spesso propagandano l'eresia della cloud repatriation. Eresia non perché un'azienda non possa riportare workload e dati in casa, ma perché questo è sempre stato visto come un caso particolare, in ottica di sovranità dei dati, privacy, sicurezza. Una opzione, non una generica scelta di approccio.

Solo che, dopo la sbornia IT forzata del 2020-21, ora il vento è cambiato. Tutti fanno molto più caso a quanto spendono e per cosa, e il cloud è una voce di costo che non fa eccezione. Le imprese fanno i conti e prendono decisioni in merito al ritorno dei loro investimenti. E qualcuna può anche decidere che la repatriation abbia un senso.

Pragmaticamente, la questione sarebbe questa e sarebbe chiusa in fretta. Anche perché la percentuale delle aziende che alla fine diranno "Cloud? Ci abbiamo provato e... no, grazie" sarà limitata. Ma il primo apparire di vacche magre in campo IT ha toccato il nervo sempre scoperto della decrescita intollerabile, altro che felice. Così addio Pax Romana: c'è da difendere il business. Il nuovo clima lo si vede nel numero crescente di ricerche di mercato, blog post e articoli di opinione sui costi/rischi del cloud e sulla repatriation, a favore o contro a seconda dei casi.

Niente di che, verrebbe da dire: la storia dell'IT è costellata da confronti del genere. Purché però non ci vadano di mezzo le aziende utenti, che sinora sono state a priori indirizzate verso il cloud e ora percepiscono invece messaggi contrastanti. Tutte? Ovviamente no. Le grandi imprese hanno le risorse e le competenze per decidere in autonomia senza farsi influenzare da (quasi) nessuno, mentre le neo-aziende che nascono in questi anni sono cloud-oriented per mentalità e per convenienza economica. Restano nel mezzo le imprese meno preparate, già un po' "cloudificate" e di non grandi dimensioni (e risorse). Che poi è il ritratto di moltissime aziende italiane, e qui sta il punto.

La cloud repatriation è una questione essenzialmente tecnica. In funzione dei tipi di workload che si sono portati e si porteranno in cloud, dei loro trend di crescita o decrescita, dei costi attuali e tendenziali dei servizi attivati e di molti altri parametri, si può decidere se il cloud continua a essere il posto giusto per la propria IT oppure no. La generica PMI nazionale non ha questa capacità di analisi: la deve portare il suo partner tecnologico di riferimento. Che - ed è qui l'auspicio - in questa fase deve saper essere, nel caso, molto più solido dei suoi fornitori tecnologici e separare la vere questioni di strategia IT da quelle sollevate ad arte. Crediamo che i system integrator italiani abbiano ormai le spalle abbastanza larghe da poter giocare questo ruolo di partner affidabile. Che poi, nei periodi di crisi, è anche la migliore politica per conquistare clienti e mantenerli a lungo.

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