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Ethereum Merge: cosa cambia per il mondo delle tecnologie blockchain

Ethereum abbandona il modello proof-of-work per cui le criptovalute sono conosciute e criticate: quali possono essere gli impatti per le applicazioni basate su blockchain?

Tecnologie

Nel giro di qualche giorno - per gli ottimisti già domani, per gli altri entro un paio di settimane - il mondo di Ethereum affronterà un evento che attende da quasi due anni e che promette di cambiare decisamente gli scenari collegati alle applicazioni in stile criptovalute. Parliamo di The Merge: la "fusione" che introdurrà una novità chiave, ossia l'abbandono dell'approccio PoW (proof-of-work) nella gestione delle blockchain, per passare a un approccio denominato PoS (proof-of-stake). Un tecnicismo e basta? No, perché questa modifica cambia il modo in cui opera Ethereum e le valutazioni che se ne possono fare sulla sua praticità.

Per capire la novità in arrivo è meglio però fare un passo indietro e ricordare in estrema sintesi come funziona Ethereum. Chi vuole aggiungere un blocco alla blockchain globale di Ethereum emette – semplificando molto le cose – una richiesta che può essere accolta da diversi nodi (non tutti, solo una minima parte) della rete decentrata di Ethereum. Parte così una specie di gara tra nodi “miner” per la risoluzione di un calcolo complesso: chi ci arriva prima aggiunge il blocco richiesto e viene ricompensato con una piccola quantità di criptovaluta Ether.

Questa procedura apparentemente arzigogolata - che, ribadiamo, abbiamo semplificato - ha varie ragioni d’essere. Una è che in questo modo possono intervenire sulla blockchain di Ethereum solo coloro che figurativamente “si danno da fare”. Hanno cioè le risorse tecniche e il tempo per risolvere i puzzle matematici che Ethereum impone per aggiungere un blocco. Puoi agire sulla blockchain, in sintesi, se dai la prova di poter fare un certo lavoro complesso. Proof-of-work, appunto. Questo è uno degli elementi che, in teoria, aggiungono sicurezza a qualsiasi sistema basato su blockchain.

Il limite principale di questo approccio è che è estremamente dispendioso in termini di risorse e di energia per alimentarle. Per risolvere più velocemente i calcoli della blockchain, i nodi miner usano processori e acceleratori potenti, che costano molto e consumano molta energia elettrica. Come se non bastasse, nella corsa ad aggiungere un blocco alla blockchain è solo uno che vince. Gli altri sprecano energia per niente. Ecco perché, alla fine, si stima che per far funzionare una certa criptovaluta si consumi, in un anno, tanta energia quanto una nazione. E nemmeno una di quelle piccole.

Il salto a proof-of-stake

Oggi queste considerazioni sono poco sostenibili e sono uno dei motivi principali per cui piattaforme come Ethereum fanno fatica ad affermarsi in applicazioni generiche. In alcune nazioni le criptovalute sono al bando proprio per il loro consumo energetico, ancora prima che per la loro affidabilità. I creatori di Ethereum avevano ben presente il problema sin dall’inizio e hanno di conseguenza pensato a una soluzione, da implementare con calma, nel tempo: sostituire l’approccio PoW con uno che non richiedesse tanta energia. Anzi, che ne richiedesse meno di un centesimo. Si tratta dell'approccio PoS, proof-of-stake.

Il concetto che sta dietro un generico approccio proof-of-qualcosa è che su una piattaforma devono poter intervenire direttamente solo coloro che sono disposti a investire tempo e risorse per essa, in sintesi coloro che a quella piattaforma “ci credono”. Nel PoW, i miner dimostrano di “credere” a Ethereum acquistando tecnologia sempre più potente e pagando bollette salate per l’energia elettrica. Nel proof-of-stake, l’impegno è diverso: per operare sulla blockchain occorre avere concretamente allocato una certa somma di criptovaluta, che viene bloccata per un periodo prefissato.

Ecco, ancora una volta in estrema sintesi, come opera Ethereum in versione PoS. Chi vuole aggiungere un blocco alla blockchain globale emette sempre una richiesta verso la rete, ma l’operazione vera e propria non scatena una gara all’ultimo bit. La modifica della blockchain viene assegnata in modo quasi-casuale a uno dei tanti nodi “validator”, cioè coloro che hanno investito preventivamente la somma di 32 ETH per avere questo ruolo e che vengono, come i miner, remunerati per ciascuna transazione completata.

Eliminare la gara a risolvere difficili calcoli matematici riduce il consumo energetico di Ethereum del 99%, secondo le stime. In teoria aggiunge anche più democrazia alla piattaforma: per essere un miner servono risorse economiche e conoscenze tecniche, per essere un validator bastano le prime. Il numero dei validator a tendere dovrebbe essere perciò molto maggiore di quello dei miner, aumentando il controllo distribuito sulla piattaforma.

L’approdo a The Merge

Prendere una piattaforma basata su blockchain e cambiare una fetta importante del suo funzionamento, per di più in corsa per non bloccare il normale fluire delle transazioni, non è certo semplice. Quelli di Ethereum ci hanno lavorato per anni. Da un lato hanno man mano disaccoppiato le operazioni specifiche di modifica della blockchain da quelle specifiche per la gestione del “consenso” (via PoW o PoS), in modo da poter cambiare le secondo senza impattare sulle prime. Ma soprattutto hanno creato, quasi due anni fa, Beacon Chain: una blockchain parallela a quella principale (la Mainnet) ma basata su PoS.

In questi due anni la Beacon Chain è stata il banco di prova, concreto e massivo, con cui testare il funzionamento del modello proof-of-stake. Ora il passaggio al nuovo meccanismo viene considerato sicuro, anche in corsa, e si procedere alla “fusione”: la Mainnet e Beacon Chain convergeranno, nel senso che lo “stato” della prima (immaginate sempre Ethereum come una macchina virtuale globale) sarà “copiato” sulla seconda. In una maniera che dovrebbe essere completamente trasparente per qualsiasi applicazione o servizio basato su Ethereum.

Per i più tecnici il Merge è una questione interessante. Ma per tutti gli altri? Cosa cambia davvero per Ethereum e, si spera, per le altre piattaforme simili? E per quelle che non hanno nessuna intenzione di abbandonare il proof-of-work?

L’idea di fondo della comunità Ethereum è che dopo la Fusione venga finalmente “sdoganato” il concetto stesso delle blockchain pubbliche massive. E quindi, indirettamente, anche del web3. Superato l’ostacolo della sostenibilità, i sostenitori di Ethereum non vedono infatti più nessun problema concettuale a testare le sue potenzialità in applicazioni di qualsiasi tipo. In primo piano logicamente quelle di finanza decentralizzata, anche se lo stigma assegnato al mondo delle criptovalute e della DeFi è solo parzialmente legato alle questioni ambientali.

Per contro, le piattaforme che restano ancorate al proof-of-work faranno ancora di più il gioco degli scettici. Ma attenzione: all’atto pratico non avranno problemi di mancanza di “pubblico”. C’è una folla di miner che ha investito in hardware di prima categoria per il PoW e che non ha intenzione di abbandonare questo vantaggio competitivo. Se Ethereum non permette di esprimerlo, pazienza. Si passerà ad altro.

In questo senso l’effetto più interessante del Merge è proprio sganciare Ethereum dall’immaginario collettivo del Far West delle criptovalute. Ethereum ha sempre cercato di distinguersi dalle altre piattaforme analoghe proprio perché non è nato solo come base per le valute digitali. E certo il salto al proof-of-stake aiuta in questa proposizione. Eliminando dallo scenario sia la figura sempre un po’ borderline (anche per colpa dei media, va detto) dei miner sia la questione ambientale, è possibile che molti più sviluppatori ed utenti si avvicinino al mondo delle dApp e del web3. Un influsso di forze nuove che non può che far bene.

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