Milano, Torino e Brescia rimangono le province più industriali del Paese. Crescita boom di Trieste, Bolzano e Parma.
Sebbene la nostra industria in senso stretto contribuisca al Pil nazionale “solo” per il 21 per cento1 , tra il 2007 e il 2022 il valore aggiunto reale2 dell’attività manifatturiera italiana è sceso dell’8,4 per cento, in Francia del 4,4 per cento, mentre in Germania la variazione è stata positiva e addirittura pari al +16,4 per cento. Tra i principali Paesi europei, solo la Spagna, con il -8,9 per cento, ha registrato un risultato peggiore del nostro. A dirlo è l’Ufficio studi della CGIA.
Il comparto che nell’industria italiana ha subito la contrazione negativa del valore aggiunto più pesante in questi ultimi 15 anni è stato il coke e la raffinazione del petrolio (-38,3 per cento). Seguono il legno e la carta (-25,1 per cento), la chimica (-23,5 per cento), le apparecchiature elettriche (-23,2 per cento), l’energia elettrica/gas (-22,1 per cento), i mobili (-15,5 per cento) e la metallurgia (-12,5 per cento). Per contro, invece, i settori che esibiscono una variazione anticipata dal segno più sono i macchinari (+4,6 per cento), gli alimentari e bevande (+18,2 per cento) e i prodotti farmaceutici (+34,4 per cento). Tra tutte le divisioni, la maglia rosa è ad appannaggio dell’estrattivo4 che, sebbene possegga un valore aggiunto in termini assoluti relativamente contenuto, in 15 anni ha registrato un incremento spaventoso pari al 125 per cento.
Sempre tra il 2007 e il 2022, il valore aggiunto reale dell’industria del Mezzogiorno è crollato del 27 per cento, quello del Centro del 14,2 per 4 Include l’industria dell’estrazione e della trasformazione mineraria (ferro, carbone, rame, piombo, stagno, zinco, argilla, sabbia, ghiaia, etc.) ed estrazione petrolio, gas e acqua dalle falde acquifere.
Solo il Nordest ha registrato un risultato positivo che ha toccato il +5,9 per cento. A livello regionale sono le imprese della Basilicata ad aver registrato la crescita del valore aggiunto dell’industria più importante (+35,1 per cento). Risultato che secondo l’Ufficio studi della CGIA è in massima parte ascrivibile agli ottimi risultati conseguiti dal settore estrattivo, grazie alla presenza di Eni, Total e Shell nella Val d’Agri e nella Valle del Sauro. In seconda posizione si colloca il Trentino Alto Adige (+15,9 per cento) che ha potuto contare sullo score del settore agroalimentare, della distribuzione di energia, delle acciaierie e delle imprese meccaniche. In terza posizione, invece, scorgiamo l’Emilia Romagna (+10,1 per cento) e appena fuori dal podio il Veneto (+3,1 per cento). Dal quinto posto in poi tutte le regioni italiane presentano una variazione di crescita del valore aggiunto negativa. Le situazioni più critiche si sono verificate in Calabria (-33,5 per cento), in Valle d’Aosta (-33,7 per cento), in Sicilia (-43,3 per cento) e in Sardegna (-52,4 per cento).
A livello provinciale Milano (con 28,2 miliardi di euro di valore aggiunto nominale nel 2021) rimane l’area più “manifatturiera” del Paese. Ricordiamo che, secondo l’Istat, da un punto di vista strettamente statistico il Nordest è costituito dalle seguenti regioni: Trentino Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia ed Emilia Romagna. Seguono Torino (15,6 miliardi), Brescia (13,5 miliardi), Roma (12,1 miliardi) e Bergamo (11,9 miliardi). Delle prime 10 province più industrializzate d’Italia, 7 si trovano lungo l’autostrada A4.
Tra tutte le 107 province monitorate, quella che tra il 2007 e il 2021 ha registrato la crescita del valore aggiunto industriale nominale più elevata è stata Trieste (+102,2 per cento). Subito dopo scorgiamo Bolzano (+55,1 per cento), Parma (54,7 per cento), Forlì-Cesena (+45 per cento) e Genova (+39,5 per cento). I territori, invece, dove le perdite di valore aggiunto sono state più importanti hanno interessato Sassari (-25,9 per cento), Oristano (-34,7 per cento), Cagliari (-36,1 per cento), Caltanissetta (- 39 per cento) e Nuoro.