La promessa del low-code

La digitalizzazione sta superando la capacità produttiva dello sviluppo tradizionale: gli approcci low/no-code non sono più una scorciatoia ma una necessità

Autore: f.p.

Every company is now a software company” è il messaggio che Satya Nadella, CEO di Microsoft, lanciò un paio di anni fa dal palco del Mobile World Congress. Un messaggio legato alla sempre maggiore digitalizzazione delle aziende, delle loro relazioni con i clienti ed anche dei loro stessi prodotti. L’idea di fondo dietro quel messaggio era che sempre più processi vanno digitalizzati. E farlo bene può fare la differenza rispetto ai concorrenti. Per questo lo sviluppo software diventa un'attività critica per (quasi) tutti.

Da questo punto di vista lo “sviluppo software” oggi non è la creazione di applicazioni monolitiche. In prevalenza diventa la creazione di applicazioni, workflow e servizi che agiscono all’interno dell’azienda per migliorare i suoi processi. Lo sviluppo si fa quindi più articolato, a volte anche più complesso. Mentre, in parallelo, ai team si chiede di sviluppare di più e più in fretta, per soddisfare le richieste sempre più numerose e pressanti dei clienti interni. Ma lo sviluppo software non è magia: software ben realizzati richiedono tempo, persone, investimenti.

È per questo che le imprese hanno sempre guardato con interesse alle promesse dallo sviluppo “alternativo”: qualsiasi cosa che aiutasse a ridurre la parte “macinacodice” per arrivare prima alle applicazioni. Da qualche tempo - con un livello adeguato di concretezza, un appeal ampio e soprattutto esigenze decisamente chiare del mercato - è il turno delle piattaforme low-code e no-code. Che, come indica la denominazione, riducono o annullano del tutto la scrittura di codice.
Le piattaforme di sviluppo low/no-code sono davvero la ricetta per risolvere la diatriba tra velocità e qualità dello sviluppo? Di sicuro il mercato ci crede, dopo che negli ultimi quattro-cinque anni il concetto di low-code è maturato. Secondo Gartner, ad esempio, entro fine 2024 il 65% dello sviluppo applicativo nelle imprese dovrebbe essere low-code. Ed entro il 2023 oltre la metà delle medio-grandi imprese dovrebbe avere una piattaforma low-code tra quelle strategiche. Una crescita forte del mercato: attualmente la quota degli sviluppatori low-code nelle imprese viene mediamente stimata sotto il 10%.

Una crescita che sembra inevitabile, però. I lockdown della pandemia hanno accelerato la spinta alla digitalizzazione, che ormai viene vista da tutti come la base per poter essere sempre operativi. Questo si aggiunge alla domanda di applicazioni che già esisteva prima della pandemia. E porta IDC a prevedere che nei prossimi cinque anni ci saranno da generare qualcosa come 500 milioni di nuove applicazioni. Troppe per il numero di sviluppatori tradizionali sul mercato. Un numero che è già basso rispetto alla domanda attuale. A questo punto l’approccio low/no-code non è solo una scorciatoia per fare prima, è l’unica strada possibile per soddisfare la domanda.

Ma attenzione: non è una strada che porta ovunque. Anche i produttori di piattaforme “a bassa intensità di codice” badano infatti a sottolineare che senza scrivere alcuna linea di codice non si può fare proprio tutto. E che molte aziende utenti devono ancora comprendere bene cosa si intende per no-code e low-code. Anche perché il mondo low/no-code è ben diverso da quello della scrittura di codice tradizionale.
Alcuni tool adottano un approccio visuale che permette di creare flussi di lavoro collegando componenti e sorgenti dati. È il caso di diverse piattaforme di Robotic Process Automation, che è a tutti gli effetti una forma di sviluppo no-code. Altri strumenti adottano invece una interfaccia in linguaggio naturale, supportata da varie funzioni di machine learning, che nascondono ulteriormente i passi necessari a creare un workflow o un’applicazione con interfaccia web. Inoltre, molti tool - specie tra quelli a zero codice - sono pensati per ambiti ben specifici e collegati a motori propri.

C’è, insomma, ancora necessità di fare chiarezza su cosa significhi creare applicazioni e workflow senza codice o quasi. E anche la distinzione tra low-code e no-code ha la sua importanza. I tool no-code sono essenzialmente destinati agli utenti business che non sono interessati alla programmazione. Gli strumenti low-code sono utili anche agli sviluppatori classici che vogliono velocizzare parti del proprio lavoro. Il punto chiave è evitare anche solo l’impressione della contrapposizione tra sviluppo tradizionale e semplificato. L’approccio low/no-code non mira a sostituire quello classico e nemmeno potrebbe farlo. Non ne ha gli stessi livelli di complessità.

L’obiettivo a cui tendono molte aziende è il “fusion developer team”: un team di sviluppo che mette insieme gli sviluppatori classici “code first” e quelli low/no-code per risolvere una specifica esigenza di business. Gli sviluppatori classici sono più vicini alla parte tecnica e possono scrivere parti di applicazioni o servizi, API e connettori. Gli altri sono più vicini all’operatività del business e possono mettere insieme i componenti dei loro tool e quelli prodotti dagli sviluppatori tradizionali. I quali portano poi anche una visione più architetturale dello sviluppo, utile a “disciplinare” lo sviluppo low/no-code ed a garantire che resti all’interno dei binari, anche di cyber security, imposti all’IT d’impresa.

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