Il lato tecnologico e quello finanziario della GenAI cominciano ad essere troppo intrecciati fra loro. Con ripercussioni pericolose.
Autore: Francesco Pignatelli
L'interrogativo se lo è posto anche il Wall Street Journal, che non si può classificare certo come una testata sensazionalistica: OpenAI sta diventando "too big to fail"? L'espressione, che è diventata popolare dopo la crisi finanziaria del 2008, non va vista in positivo. Nessuno vuole ovviamente impedire a OpenAI di crescere in funzione delle sue capacità, quello che preoccupa è piuttosto l'intreccio sempre più stretto tra questioni tecnologiche e finanziarie, intreccio che impedisce una chiara valutazione della solidità e del peso delle aziende collegate in vario modo al mercato della "nuova" AI.
Ricapitoliamo i punti salienti. OpenAI non è una azienda quotata e quindi non deve pubblicare risultati finanziari ufficiali, con la conseguenza che non è possibile valutare oggettivamente il suo andamento. Certo i suoi manager, Sam Altman in primis, qualcosa dicono. Ma è un po' come chiedere al proverbiale oste se il vino è buono: non può mentire troppo, ma niente gli vieta di abbellire la realtà. Quindi di OpenAI di fatto sappiamo quello che è oggettivo: non ha mai fatto utili, il suo fatturato è in crescita, spende miliardi di dollari a trimestre perché "fare" AI costa moltissimo.
Associare numeri concreti a questa descrizione vaga non è semplice. C'è chi ha provato a farlo incrociando le dichiarazioni di OpenAI con i dati - questi sì ufficiali - di Microsoft, che è allo stesso tempo investitore storico di OpenAI e suo (ormai ex) fornitore principale di servizi cloud. Da queste valutazioni, e da altre analoghe, nasce la perplessità di testate come il Wall Street Journal o il Financial Times.
Le stime indicherebbero che OpenAI è quantomeno ottimista nelle sue previsioni di fatturato e che sta spendendo in risorse cloud, per servire i suoi clienti diretti, circa il doppio di quanto non le entri in cassa. Da qui un "rosso" di bilancio che non fa altro che crescere. Dai dati finanziari Microsoft si deriverebbe ad esempio che nel solo trimestre luglio-settembre 2025 OpenAI avrebbe registrato un passivo di oltre 11 miliardi di dollari.
Non è un mistero che OpenAI abbia sempre più bisogno di denaro, visto che non ne fa e ne spende tanto. Finché glielo danno i venture capital e altri tipi di investitori privati niente da dire, solo che anche gli investitori più ottimisti prima o poi si stufano e quel "prima o poi" - questa era l'idea sino a qualche tempo fa - era previsto per la seconda metà del 2026.
Poi si è scatenata la moda degli accordi incrociati tra vendor dell'AI e questo ha sì spostato in avanti le dinamiche del mercato, ma anche iniziato a preoccupare molti analisti finanziari e gestori di fondi. Per citare solo gli accordi chiave: non c'è solo Microsoft a investire in OpenAI essendone un fornitore, anche Nvidia le ha promesso i (cento) miliardi che serviranno a comprare i suoi prodotti e, da parte sua, AWS e Oracle hanno messo in carniere contratti con OpenAI per decine e centinaia di miliardi.
Tutto questo giro di investimenti e promesse di spesa - perlopiù non vincolanti, peraltro - fa salire il mercato azionario e quindi piace, tanto che i più cinici affermano che tutto questo va benissimo, ora, perché impedisce all'economia USA di andare in recessione. Ma le basi su cui questa crescita si sviluppa sono molto dubbie. Come può un'azienda - OpenAI - che oggi non fa un dollaro di utile spenderne 400-500 miliardi in pochi anni per fare l'hyperscaler dell'AI? E quando si capirà che OpenAI i fondi per rispettare veramente quei contratti non li ha, che succede? Scende in campo Washington, considerato che i manager di OpenAI hanno già ventilato l'ipotesi di chiedere a Washington prestiti di Stato o crediti d'imposta? Siamo in una bolla finanziaria dell'AI e lo sappiamo, ma c'è bolla e bolla: questa sembra stare scappando di mano.
Il problema non è la bolla in sé, anche se quando scoppierà o si sgonfierà saranno in molti a farsi male: è che quello che sta succedendo oggi non depone bene per la concretezza del mercato in generale della nuova AI. In qualunque ambito tecnologico che si sia stabilizzato i leader di mercato sono al massimo due e ci sono, se va bene, altre tre o quattro grandi realtà che prosperano. Se la stessa azienda che ha sdoganato l'AI di nuova generazione e sulla cui tecnologia quasi tutti fanno leva - OpenAI - non sembra avere un modello di business veramente sostenibile, come si può pensare che le cose possano andare meglio per gli altri (salvo rare eccezioni)? In parte è un film già visto: sarebbe solo l'ennesima volta che entriamo in un "AI winter" per colpa di speculazioni e aspettative esagerate.
Così non stupisce poi tanto che uno che di bolle se ne intende - Michael Burry, quello diventato miliardario anticipando la crisi dei mutui subprime statunitensi che ha dato il la alla crisi finanziaria globale del 2008 - abbia pesantemente puntato sul crollo del mercato AI. Più in dettaglio, qualche giorno fa Burry ha convertito l'80% del suo portafoglio - quasi un miliardo e mezzo di dollari - in opzioni di vendita per i titoli di Palantir e Nvidia, le due aziende più amate dagli investitori USA in campo AI. È una scommessa decisa: Burry stima ad esempio che entro fine 2027 le azioni Palantir scendano sotto i 50 dollari, mentre oggi ne valgono circa 175. Non è detto che alla fine questo nuovo "big short" abbia successo, ma il segnale è forte. E a Wall Street non è passato inosservato.