Nfon: bene l'hybrid working, ma prima...

Le lezioni apprese con il remote working del periodo pandemico vanno applicate alle nuove modalità di lavoro, per evitare sgradite sorprese

Autore: Redazione ImpresaCity

Al remote working ci siamo abituati nel periodo dei lockdown e del primo post-pandemia. Ora che il ritorno in ufficio è diventato una opzione, ma di sicuro non apprezzata da tutti, è il momento di applicare le esperienze che proprio il "lavoro da casa" pandemico ci ha lasciato. Non usare queste esperienze è un rischio, perché inasprirebbe il contrasto che già esiste tra una parte dei dipendenti "remoti" e i loro datori di lavoro.

In questo senso Nfon ha condotto una indagine su come il remote working è stato vissuto in diverse nazioni europee, tra cui l'Italia. Alcuni dei risultati dell'indagine sono prevedibili, altri magari meno. Non a caso, Nfon parla del "paradosso del lavoro da casa": quote importanti dei remote worker segnalano che dedicano (o hanno dedicato) più tempo al lavoro, ma contemporaneamente hanno anche trovato più tempo per sé stessi e la loro famiglia.

Il paradosso è, ovviamente, spiegabile. In molte nazioni andare in ufficio comporta orari obbligati e lunghi spostamenti. Il remote working porta invece la possibilità di programmare in modo più flessibile i propri impegni. Chi riesce a farlo davvero, nel complesso guadagna più tempo a disposizione. Non tutti riescono a farlo, va detto. Ma una quota importante del campione (59,7% a livello UE, 54% per la sola Italia) dichiara che il lavoro da casa dà un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata.

Sull'altro piatto della metaforica bilancia c'è, prevedibilmente, il rischio di lavorare di più e più a lungo. Una quota del campione (30% nel complesso, 29% per l'Italia) indica complessvamente che il remote working impatta negativamente sull'equilibrio tra lavoro e vita privata. E quote simili indicano che nel remote working aumentano il carico di lavoro (28% per l'Italia) o le ore lavorative (23% per l'Italia). E anche la temutissima reperibilità "semi-obbligata" a tutte le ore, un problema per il 19% degli italiani.

L'indagine Nfon raccoglie nel complesso vari segnali più o meno marcati. L'applicabilità del remote/hybrid working appare così legata a diversi fattori che non sempre sono controllabili. Di certo la possibilità e la capacità di organizzarsi bene, ma anche la disponibilità in casa di spazi adeguati per il lavoro (qui gli italiani appaiono avvantaggiati, con uno spazio medio dedicato di quasi 24 metri quadri contro i 20 scarsi della media europea) e l'avere connessioni a Internet di buona qualità.

Di sicuro, il remote o hybrid working porta con sé il concreto rischio del cosiddetto tecnostress. Nella vita personale avere tecnologie digitali che non funzionano bene è certamente un fastidio, ma non un dramma. Se si lavora da casa le cose cambiano, si fanno più serie. Così qualsiasi ostacolo tecnologico diventa una fonte di stress. Gli italiani sono tra i remote worker più sensibili al tecnostress: il 19% lo segnala come problema nel caso dell'utilizzo di dispositivi hardware, il 17% nel caso dei (troppi, spesso) software da usare per lavorare in remoto.

Il rischio dietro i numeri

Tutti - questi ad altri, nell'indagine - dati interessanti. Che i datori di lavoro, però, potrebbero limitarsi a considerare giusto come informazioni di contorno. Sarebbe un errore grave, sottolinea Nfon, perché il 22% circa degli intervistati europei (il 24% in Italia) dichiara di aver già pianificato di cambiare lavoro a causa delle esperienze vissute durante la pandemia.

È un po' quella che gli anglosassoni hanno chiamato Great Resignation e che si fa ancora fatica a quantificare. Ma non a motivare, in fondo. C'è innanzitutto un elemento di vissuto personale importante: il 27% degli europei (e degli italiani) indica che la pandemia ha cambiato la gerarchia delle priorità mettendo al primo posto la vita personale.

Ma ci sono anche cause più legate alle esperienze lavorative: la pandemia ha ad esempio messo in evidenza la mancanza di opportunità di sviluppo professionale nella propria azienda (lo indica il 30% degli italiani) o la sua poca flessibilità (segnalata dal 20%) nel gestire le esigenze dei dipendenti. Conta ovviamente anche il fatto che diverse aziende abbiano stretto i cordoni della borsa, durante o dopo la pandemia: il 25% degli italiani e il 30% degli europei indica una retribuzione minore come spinta per cambiare lavoro.

Il segnale è che - prima di richiamare in forze le persone negli uffici o, all'opposto, di istituzionalizzare l'hybrid working - i datori di lavoro dovrebbero affrontare le problematiche che il remote working forzato ha già portato in evidenza. Altrimenti, qualsiasi policy rischia di partire già indebolita.


Visualizza la versione completa sul sito

Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy. Chiudendo questo banner, acconsenti all’uso dei cookie.