Smart working: sì, ma con più ordine nelle informazioni

Agli italiani lo smart working piace, ma va migliorato il modo in cui circolano le informazioni aziendali

Autore: Redazione ImpresaCity

Lo smart working e le altre forme di lavoro "agile" sono state per molti versi imposte dai lockdown, ma promettono di restare con noi anche senza le necessità imposte dalla pandemia. Ormai già varie indagini hanno mostrato, cifre alla mano, che i lavoratori italiani gradiscono molto la possibilità di lavorare senza essere costretti ad essere tutti i giorni in ufficio. Ma un'altra ricerca - condotta da OpenText - sottolinea anche che la nuova normalità del lavoro sottende anche problemi tecnologici.

Secondo l'analisi - che ha coinvolto un campione di 24 mila lavoratori di diverse nazioni (per l'Italia, 2.000 intervistati) - la percentuale di coloro che lavorano fuori ufficio e non sentono di avere tutti gli strumenti ideali resta ancora abbastanza rilevante: 31%. Il problema principale di questo aspetto riguarda la gestione delle informazioni e la loro natura, spesso sin troppo destrutturata.

Volendo semplificare molto, lo smart working non è stato - e spesso non è ancora - abbastanza smart quando il lavoratore è prevalentemente fuori dalle mura dell'azienda. Viene lasciato al dipendente o collaboratore il compito di accedere in maniera sistematica ed organizzata alle informazioni ed alle risorse che gli servono.
Da qui la nascita del cosiddetto tecnostress: troppe password da ricordare (lo segnala il 39% del campione italiano), l’eccessiva quantità di informazioni e dati da gestire tramite i diversi dispositivi (23%) e i troppi tool da monitorare durante la giornata (22%). Con il peso in più che poter lavorare da ovunque significa poter lavorare sempre. Ed ecco che molti - il 16% di intervistati italiani - non staccano davvero la spina. Per molti, essere potenzialmente sempre connessi è diventato essere virtualmente sempre al lavoro.

Delegare di fatto ai dipendenti l'organizzazione dell'accesso alle informazioni è, per le aziende che si trovano in tale scenario, un rischio per la sicurezza delle informazioni stesse. “Quando i dati risiedono su sistemi diversi, sono necessari tempo e risorse per accedervi, e può accadere che la sicurezza venga messa in secondo piano dai tentativi di cercare soluzioni alternative per snellire i processi. Archiviazione e gestione manuale delle informazioni, inoltre, sono soggette a errori”, spiega Antonio Matera, Regional Sales Director OpenText Italy.

Anche perché, a quanto pare, i professionisti italiani sono molto più propensi dei colleghi di altre nazioni a condividere documenti in maniera non proprio "blindata". Oltre la metà (54%) degli intervistati italiani, infatti, ammette di aver condiviso file aziendali almeno una volta tramite tool personali. Molto più di quanto accade a spagnoli (22%), britannici (20%), francesi (17%).

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