Digitalizzazione: avere e non avere

In una società che appare sempre meno inclusiva dobbiamo chiederci quanto questa involuzione sia assimilata e addirittura rafforzata dalle tecnologie. Perché non esiste solo il digital divide della connettività.

Autore: f.p.

Questi mesi saranno ricordati per come molte nazioni stanno uscendo dalla pandemia. Ma anche per come questa si stia diffondendo in altri Paesi, senza la rilevanza e la ricchezza della cronaca che hanno avuto Europa e Stati Uniti. E ancora, le ricorderemo per le manifestazioni che in America, e nel resto del mondo, hanno portato in primo piano la questione mai risolta delle discriminazioni razziali e, in ultima analisi, del colonialismo. Sono questioni che sembrano scollegate fra loro, e soprattutto scollegate dal nostro pane quotidiano: la tecnologia. Non è del tutto così: tutte sottendono, magari in maniera non evidente, il tema dell'inclusività.

La pandemia Covid-19 ha mostrato il valore della digitalizzazione: è stato affermato e ribadito ovunque. Ma non si è parlato altrettanto del fatto che la digitalizzazione non è davvero alla portata di tutti. Certo, abbiamo parlato per anni di digital divide. Ma ne abbiamo parlato tanto che abbiamo anche "neutralizzato" il termine. Oltretutto, collegandolo principalmente ad un aspetto - essere connessi alla Rete - che è solo una parte del problema.

La questione oggi non è solo capire chi ha o meno accesso a determinate tecnologie. Un aspetto sul quale si può lavorare in molti modi. La questione va oltre, ed è duplice. In primo luogo è capire quanto le nuove tecnologie siano inclusive. Cosa che ovviamente dipende da come le realizziamo, non dalle tecnologie in sé. In secondo luogo è valutare quanto consideriamo l'inclusività nel progettare i nuovi servizi digitali che useranno le tecnologie della digitalizzazione.

Ci siamo invece abituati a pensare solamente a una inclusività per così dire tecnologica. Il classico digital divide: se un servizio innovativo si basa su un componente tecnico, chi non lo possiede ne è escluso. Nel lockdown lo abbiamo sperimentato: per il remote working servivano banda e PC prestanti. Chi non li aveva era svantaggiato. Ma possiamo fare in modo che, una ipotetica prossima volta, li possieda.
Andando oltre, esistono davvero tecnologie non inclusive? Se non poniamo attenzione, certo. Si è ampiamente parlato del bias del riconoscimento facciale: se con le tecnologie digitalizziamo anche i nostri pregiudizi - per quanto, si spera, inconsapevolmente - partiamo ampiamente con il piede sbagliato. E non c'è solo il riconoscimento facciale, ma altre "creazioni" pericolose come il predictive policing. Che non sta certo funzionando alla Minority Report.

E il ragionamento si estende ai servizi che usano le nuove tecnologie della digitalizzazione. Pensiamo - ma è davvero solo un esempio tra tanti - ai pagamenti digitali. È evidente oggi una spinta, anche politica, verso l'abbandono del denaro contante. Ma una società "cashless" si basa su carte di credito, carte di debito, conti bancari. Che decine di milioni di persone, anche nelle nazioni cosiddette evolute, non hanno. E non abbiamo ancora realizzato qualcosa di alternativo ed inclusivo. A parte i tentativi aleatori delle criptovalute e l'ambito molto ristretto del social lending.

La questione in generale non è, come talvolta si indica, generazionale. I "nativi digitali", per usare una espressione abusata, non sono necessariamente "inclusi" in un futuro digitale ideale grazie alla loro familiarità con le tecnologie. La cronaca dimostra invece come rischiano di essere esclusi tanto quanto altre classi demografiche. Per sicurezza economica, prospettive di carriera, prospettive ambientali.

Una frase ampiamente citata di William Gibson recita che il futuro è già qui, solo che non è distribuito equamente. Il futuro in realtà non è già qui, quindi abbiamo tempo per fare in modo che sia strutturato, e non solo distribuito, equamente. Però dobbiamo porci le domande giuste. E qualche dubbio costruttivo in più.

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