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La vera collaborazione è un’utopia?

I dipendenti delle aziende non hanno mostrato fin qui una gran voglia di cooperare fra loro. Eppure avrebbero solo da guadagnarci.

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Il mercato delle imprese collaborative, soprattutto delle reti sociali enterprise, esiste già da qualche tempo, ma per ora non ha mantenuto le promesse. Se si escludono Yammer e Jive, riuscite in campo finanziario, ma che non hanno ancora raggiunto la profittabilità, nessuna altro ha brillato. Diverse realtà sono state acquisite (SocialCast, Bluekiwi, Podio) senza che siano state rese note le cifre investite, mentre altre sono state chiuse o si sono riorientate (Socialwok, Theflowr e altre).   

Carenza di volontà interna 
Perché questo mercato appare tanto turbolento? La sensazione un po’ amara è che coloro che sono chiamati a collaborare all’interno di un’azienda semplicemente non hanno vera volontà di farlo. Eppure, soprattutto il Web 2.0 aveva creato molte aspettative in questa direzione, promettendo strumenti per costruire e interagire in rete, mettere il fattore umano al centro dell’attenzione, cortocircuitare la comunicazione discendente dall’alto per sostituirla con scambi orizzontali. 
Ci sono tutt’oggi studi che parlano delle reti sociali d’impresa come uno dei fenomeni destinati a pervadere l’azienda del futuro, tanto che c’è chi si spinge a dire che fra dieci anni il 90% ne sarò dotato e saranno coinvolte anche le Pmi. Per quanto si è visto fino a oggi, tuttavia, viene da pensare che saranno utilizzate male o parzialmente. 
In linea generale, gli enterprise social network sono da considerare strumenti di produttività, reattività e formazione, ma anche mezzi per creare uno spirito d’azienda e diffondere valori umani e di business. Forse, occorrerebbe pensare a un’altra denominazione, perché con quello attuale arriva automatica l’associazione con LinkedIn o Facebook. Invece, stiamo parlando di tutt’altro, ovvero di una piattaforma di comunicazione, basata su un concetto radicalmente nuovo di informazione, da indirizzare e utilizzare nell’ambito di gruppi costruiti allo scopo di aumentare la produttività e la creatività dell’azienda e di chi lavora al suo interno.   

Contano i legami, non il numero di utenti 
Dato il nome, si è portati a credere che occorra essere numerosi per rendere il progetto interessante. Ma si tratta di una convinzione errata. Un social network aziendale non ha bisogno di tanti iscritti, ma di legami corretti. Nelle Pmi, per definizione, lavorano poche persone, eppure all’interno esiste una fitta trama di scambi, anche in contesti dove la collaborazione non viene troppo ben vissuta. In generale, una buona rete di legami consente di accrescere la reattività in termini di supporto al cliente, condivisione di best practice, sincronizzazione fra marketing, commerciale e produzione, soprattutto fra equipe geograficamente distanti. 
Affinché il meccanismo funzioni, però, occorre avere la volontà di lavorare insieme, superando l’abitudine a bluffare, per rendere realmente convergenti gli interessi di tutti. Il collega, insomma, non va percepito come un nemico, ma come un soggetto da rispettare e su cui contare, con ovvio riferimento al contesto lavorativo. 
Questo spirito non è però la regola nei contesti aziendali. Senza individui non ci può essere evoluzione verso un 2.0 qualunque e una vera collaborazione. Gli anglosassoni hanno trovato una soluzione, per quanto discutibile: fanno finta. Non è l’ideale, ma ha consentito di creare un processo collaborativo in molte realtà, generando forme di condivisione e di considerazione fra colleghi. 
Fin qui, si passa ancora troppo tempo a riempire fogli Excel o capire come funziona SharePoint, mentre occorrerebbe costruire dei piani d’azione, se non delle vere e proprie strategie, stimolando lo spirito collaborativo e puntando concretamente sugli individui, anche attraverso incentivi e iniziative atte a premiare lo sforzo dei gruppi. La mentalità non è troppo propria dei contesti collettivi italiani, ma ci sono molte realtà piccole e medie dove le cose vanno già in questo modo.
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