Giornata della Terra: il ritorno di Clean Tech?

Si punta molto sulle nuove tecnologie per aiutare l'ambiente, ma Clean Tech ha già fallito in passato. Ora le cose sono diverse, basterà?

Autore: f.p.

Le persone (giustamente) preoccupate per il futuro del nostro pianeta sono, quando guardano al futuro, più o meno ottimiste. Tutte comunque affidano un ruolo chiave alla tecnologia. Consce probabilmente che buona parte degli abitanti del pianeta non sono disposti a fare i sacrifici che ci vorrebbero nel momento in cui servono (cioè ora), puntano sullo sviluppo di tecnologie che ci consentano di salvare il pianeta senza impattare troppo sul nostro stile di vita. È davvero possibile questo? Ci sono segnali contrastanti. 

Lo sviluppo molto rapido dei vaccini anti-Covid mostra che, messe alle strette, società e nazioni sanno accelerare lo sviluppo tecnologico verso la soluzione che serve in quel momento. Ma è innegabile che lo sviluppo tecnologico è strettamente legato all'economia: le nuove tecnologie vengono prevalentemente dal settore privato, che raccoglie fondi e investe basandosi sulla ragionevole previsione di avere un mercato in crescita dove portare prodotti e servizi. In questo senso, i precedenti non sono dei migliori.

L'interesse del mercato e degli investitori per le tecnologie che contribuiscono ad affrontare la questione ambientale data da ben prima, per dire, dei Fridays for Future. Negli anni Dieci c'è stato un vero e proprio primo boom del Clean Tech: in quegli anni nella Silicon Valley sono ad esempio nate un centinaio ed oltre di startup tecnologiche green che hanno raccolto qualcosa come - le stime variano - 25-30 miliardi di dollari in investimenti dei venture capitalist. E sono solo numeri orientativi, perché non esiste un censimento ufficiale globale del Clean Tech.
La maggior parte delle startup di quegli anni è fallita, complice anche la crisi del 2008. Poche hanno avuto - e dopo molti anni - una "exit" di successo, con la quotazione in Borsa o almeno l'acquisizione da parte di qualcuno. Mediamente hanno reso agli investitori iniziali molto meno delle startup tecnologiche di altri settori, come l'IT. Quella che era stata anticipata come la più grande opportunità di mercato del Ventunesimo Secolo in sostanza non si è concretizzata.

In particolare, il modello del venture capital che andava (e va) tanto per la maggiore non si è adattato al Clean Tech. Tanto che altri investitori interessati all'ambiente oggi parlano di "patient capital". Un capitale non di ventura ma "paziente", che non si aspetta ritorni a breve ma sa aspettare dinamiche diverse da quelle delle software company. Non a caso, una delle aziende-simbolo del primo boom del Clean Tech - Nest, ora di Google - è in effetti più una software company che un'azienda "ambientale".

Cosa è andato storto

Eppure, l'appeal di Clean Tech - o, per come si preferisce chiamare oggi il settore, Climate Tech - per i venture capital resta importante. Anche se forse, come vedremo, non essenziale come in altri ambiti tecnologici. Quindi è utile capire perché i capitali di ventura e le startup più o meno "verdi" non hanno avuto un buon rapporto. È, più che altro, una questione di metodo e di tempi.

I venture capital non sono preoccupati che il 90 percento delle aziende in cui investono alla fine fallisca. Anzi, la cosa è prevista e metabolizzata sin dall'inizio. È la crescita rapida e il successo del 10 percento rimanente che compensa ampiamente i mancati ritorni del resto. L'importante sono i tempi, ed è qui che il settore Clean/Climate Tech si è dimostrato molto diverso dagli altri ad alta intensità di investimenti dei venture capitalist.

Semplificando molto e facendo un ragionamento di massima: nel portafoglio di un venture capitalist una startup tecnologica ha una "aspettativa di vita" media di 5-7 anni. Entro questo lasso di tempo è chiaro - al venture capitalist, magari a noi meno - se la startup avrà una crescita veloce e soprattutto una exit di successo. E il VC non vi ha comunque investito più di una o due volte (i mitici "round"), per qualche decina di milioni di dollari. Nell'ordine del centinaio per le realtà più promettenti che si sono nel frattempo ingrandite, nelle quali quindi conviene restare ancora un po'.
La gran parte delle startup Climate Tech non può rientrare in questo modello. Perché produce tecnologia che va poi trasformata in prodotti, ad esempio un nuovo sistema di carbon capture o una batteria migliore. E questi prodotti vanno ingegnerizzati, prototipati, testati, cambiati, prodotti in numero sempre maggiore. Servono per questo ricerca, materie prime, competenze, impianti, logistica. Il che si traduce in tempi lunghi e in grandi investimenti iniziali. È possibile che nel lasso di tempo in cui una startup IT nasce, cresce e va in Borsa, una startup Climate Tech non abbia venduto un solo prodotto.

Lo scenario, oggi

La differenza la fa, come sempre, la prospettiva di un mercato. All'inizio degli Anni Dieci la comprensione della questione ambientale era molto diversa da com'è oggi. Tutte le nazioni si sono date obiettivi importanti nella riduzione delle emissioni. E lo stesso vale per le aziende private. Anche i giganti dell'IT fanno a gara nel diventare sempre più a impatto (quasi) zero. La sostenibilità ambientale fa parte dei buoni propositi di qualsiasi azienda. La domanda di tecnologie quindi sta crescendo, il che giustifica le aspettative di un nuovo boom delle tecnologie pulite.

Si calcola che nel 2019 gli investimenti in Climate Tech abbiano superato i dieci miliardi di dollari. Il segnale è positivo, ma molti osservatori sottolineano che lo scollamento tra le strategie dei venture capitalist e le necessità del pianeta resta sensibile. E che, nonostante se ne parli molto, gli investimenti "di ventura" rappresentano una fetta tutto sommato minima delle possibilità globali di investimento. Meglio coinvolgere - e in effetti già sta avvenendo - il famoso "patient capital": investitori privati a lungo termine, "angel investor", realtà che possono dedicarsi al project financing di nuove iniziative legate all'ambiente, investimenti statali o comunitari. E via dicendo.

Resta poi una questione di fondo, molto legata anche a come si vede (e prevede) lo sviluppo tecnologico in ambito Climate Tech. Aspettiamo l'arrivo di una nuova tecnologia rivoluzionaria che possa cambiare completamente le carte in tavola? Oppure puntiamo a potenziare le tecnologie che già ci sono e che magari non sono state sviluppate abbastanza, anche se si sarebbe potuto? Nel primo caso la mentalità "move fast" (ma senza il relativo "break things") della Silicon Valley può essere d'aiuto. Nel secondo può essere meglio fare massa (finanziaria) critica dietro a quello che già abbiamo. Nel dubbio, forse, meglio seguire entrambe le strade: l'importante è il risultato.

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